Ci sono molti modi per raccontare un videogioco, la sua storia e quella dei suoi creatori. Esistono modi convenzionali come l’articolo, l’intervista con gli sviluppatori, il documentario, il libro, una sezione dedicata all’interno di una mostra. Ma un videogioco è un’opera viva, interattiva, già predisposta a raccontar storie. E se fosse il videogioco stesso a raccontare la propria storia?
Flashback.
Prendete ad esempio Doom, sì il primo grande stratosferico successo di Id Software del 1994.
Se cercate in rete troverete ogni possibile immaginabile risorsa su questo videogioco che ha segnato la nascita del genere sparatutto su pc: interviste, video, articoli, mod, machinima, fiction, fumetti e chi più ne ha più ne metta. Addirittura troverete qualcosa in libreria, ad esempio “Master of Doom” di David Kushner, l’appassionante biografia romanzata di John Carmack-John Romero e soci. Sono tutti strumenti efficacissimi ciascuno con le proprie peculiarità per raccontare frammenti della stessa storia.
Mesi addietro mi son ritrovato ad immaginare cosa sarebbe potuto accadere nel metter mano ad un editor di Doom per creare, non un nuovo livello del gioco, ma un museo virtuale dedicato a Doom, liberamente esplorabile che raccontasse con il motore di gioco la propria storia.

Quale miglior linguaggio del gioco stesso per mostrare le innovazioni tecnologiche in esso contenute o per esplorare ad esempio il percorso creativo che ha portato i designer a realizzare gli sprite bidimensionali dei demoni e dei marine a partire da action figure in plastilina.
L’idea mi è sembrata da subito divertente e realizzabile.
Invece di modellare tunnel trabocchetto, piazze di lava o roccaforti inespugnabili avrei dovuto realizzare l’architettura interna di un museo virtuale con una hall e tante sale espositive magari disposte su livelli differenti con grandi scale per accedervi.

Le sale poi, avrei potuto allestirle con pannelli di infografica con i quali raccontare brevemente aneddoti o informazioni salienti magari utilizzando anche immagini storiche del backstage di lavorazione (sui siti di Carmack e Romero si trovano parecchie immagini dei primi anni ’90 quando Id era ancora una stanza con alcuni computer e motoseghe a nafta sparse sul pavimento).
E questa sarebbe stata la parte più “tradizionale” del mio museo, quella un po’ più polverosa e vecchio stile. Ma il bello doveva ancora arrivare.
Il mio museo sarebbe dovuto essere hands-on, ossia interattivo. Pensai ad esempio che avrei potuto creare un grande salone dedicato alle armi. Avrei creato tanti piedistalli sui quali avrei esposto tutte le armi del gioco magari con qualche informazione curiosa. Poi sarebbe stato troppo invitante creare una saletta di prova in cui testare l’arsenale scaricando tonnellate di piombo addosso ai poveri demoni bersaglio resi inoffensivi all’interno di una cella.
Avrei potuto creare anche la Galleria delle creature, tante gabbie in cui rinchiudere Cacodemoni, Cyberdemoni, Imp & soci da osservare con tutta tranquillità attraverso un’inespugnabile muro invisibile.
A lato di ogni gabbia, avrei poi creato un apparato iconografico col quale mostrare la genesi creativa di ogni creatura, dagli art work concettuali al pixel drawing passando dalle celebri statuette in plastilina.

Il mio museo virtuale di Doom avrebbe avuto anche una galleria dedicata alle tecnologie, già, perché Doom a suo tempo introdusse numerose innovazioni a livello di programmazione e di rendering grafico (i soffitti e i pavimenti finalmente texturizzabili, la possibilità di creare livelli su differenti piani collegati da scale, la libertà di creare stanze con pareti non più solo ortogonali); la galleria delle tecnologie avrebbe offerto al visitatore un percorso organizzato tra alcune stanze speculari tra loro: le une, strutturate e texturizzate con la tecnologia a disposizione ai tempi di Wolfenstein 3D (i file wad di Carmack contengono anche le texture e gli sprite usati in Wolfenstein, basta solo sapere dove andarle a cercare), le altre, con le innovazioni introdotte da Doom.
Sarebbe così stato lampante cogliere le differenze tra le due, senza bisogno di raccontarlo con parole o con uso di immagini statiche.

Infine, il museo avrebbe offerto al suo pubblico (ovviamente il museo sarebbe stato esplorabile anche in modalità multiplayer!) anche un prestigioso iMax Teather come si conviene ad ogni più evoluto science center, in cui rappresentare spettacolari performance live di grandi battaglie tra creature standosene comodamente “seduti” con il proprio marine-avatar sugli spalti (dovreste provare l’esilarante esperienza con un qualsiasi editor di Doom: è sufficiente disporre centinaia di creature in uno spazio sufficientemente grande separandole in due eserciti e provocarle ad esempio con uno sparo… dovreste vedere come si massacrano allegramente!).

Flashforward.
Questo museo in forma organica ad oggi non esiste: esistono alcuni prototipi di una struttura esterna (liberamente ispirati al Museo di Storia Naturale di Milano) e alcune stanze nelle quali ho sperimentato l’utilizzo di texture disegnate ad hoc (l’inserimento all’interno del file wad originale è un processo non immediato ma abbastanza semplice) sulle quali ho scritto didascalie e appiccicato immagini fotografiche. Ho poi implementato un prototipo di galleria delle creature e un abbozzo di sala delle armi.
Se ho realizzato altro, ora non ricordo, dei personaggi e una storia attendono imprigionati all’interno di qualche file wad sparso nel mio computer in attesa che un visitatore virtuale prima o poi prema di nuovo il tasto “new game”.