Half Life 2, Valve e il videogioco scientifico

half life 2 episode one Alcuni giorni fa ho trovato in vendita da Blockbuster il cofanetto “Orange Box” di Valve usato che ancora mancava alla mia collezione. Così ieri sera, per prendermi alcuni giorni di ferie da quel gran gioco che è Fallout 3 New Vegas, ho scelto nel menu di gioco Half Life 2 Episode One, che non avevo ancora giocato essendomi infatti fermato alcuni anni fa ad Half Life 2 giocato su Xbox.

La prima cosa che mi sono trovato a considerare quasi da subito è stata: cavolo, questo è davvero un gioco vecchia maniera nel senso più positivo del termine, ossia impegnativo e non tele-guidato come ormai la gran parte dei videogiochi di ultima generazione.

Porca miseria, l’interfaccia di gioco mica mi segnala dove devo andare, non ho una mappa, non vedo nemmeno una freccia lampeggiante semi trasparente sullo schermo che mi segnala la direzione verso la quale dirigermi. Accidenti, devo proprio stare attento a quello che mi dice Alyx (per chi non conoscesse il gioco, Alyx Vance è la co-protagonista dell’intera serie di Half Life insieme a Gordon Freeman, ossia voi) per comprendere le mie prossime azioni.

Anche il mondo di gioco rispecchia questa forte volontà dello sviluppatore di offrire un’esperienza elittica: non ho ‘prop’ che mi suggeriscano quello che devo fare, non ho enfasi, sottolineature, strizzatine d’occhi.

Ad un occhio disattento, potrebbe quasi sembrare che gli ambienti nei quali mi muovo, sto parlando ad esempio della Cittadella, misteriosa torre a metà tra un centro di ricerca e una fortezza armata, siano ambienti reali, nei quali gli unici flebili segnali di un linguaggio codificato siano quelli destinati agli operatori di quella struttura, agli abitanti di quel luogo, segnali dunque intradiegetici funzionali alla gestione di una struttura militare e sociale e non destinati ad un fruitore extradiegetico, il giocatore-avatar.

In questo senso la messa in scena è poco teatralizzata e poco drammatizzata: ogni cosa sta al suo posto perché è lì che deve stare per poter funzionare. Insomma, Half Life 2 non fa sconti al giocatore.

La realtà ovviamente è un poco diversa: ciò che apparentemente ci sembra casuale o estraneo all’intervento di un designer che abbia a mente la nostra fruizione, è in verità frutto di un raffinatissimo e ragionatissimo progetto di level design che molto astutamente riesce a far coesistere in un unico segno funzioni di rappresentazione interna con funzioni di game design, nella fattispecie indizi per il giocatore ai fini dell’avanzamento negli ambienti di gioco.

L’esperienza di gioco che dunque se ne ricava è estremamente affascinante e la sospensione dell’incredulità è veramente molto accentuata grazie anche agli ambienti fortemente tecnologizzati e credibili.

E tra acceleratori di particelle, cannoni al plasma e inibitori nucleari mi trovo a riflettere nuovamente sul mio argomento preferito: il videogioco scientifico.
Provo a mettere insieme i pezzi: un setting fatto di laboratori, strumentazione tecnologica avanzatissima ma realistica, controllo e manipolazione dell’energia e delle particelle, esperienza di interazione ai limiti della simulazione con possibilità di sperimentazione nella gestione degli elementi interattivi. Mi sembra che gli ingredienti ci siano quasi tutti (nel mio personalissimo ideale di ciò che potrebbe essere il videogioco scientifico), ciò che manca davvero è la scientificità del mondo simulato. E forse anche un apparato informativo e divulgativo sul mondo con il quale interagisco. Insomma, a ben vedere, manca ancora molto. Allora diciamo che l’aspetto davvero centrato di questo half life 2 episode one (capitolo cittadella) nell’ambito del rappresentare un buon esempio di “videogioco scientifico” è l’ambientazione, il design e alcune modalità del game play che nella loro estrema sinteticità ricordano il lavoro di un ricercatore, guidato sempre dalla conoscenza ma alle prese con un mondo in gran parte sconosciuto. Perché, a ben vedere, ciò che a mio avviso rischia di far naufragare l’idea in generale di videogioco scientifico è paradossalmente proprio la componente ludica che per essere tale, richiede l’elaborazione di dinamiche di interazione che siano divertenti. Da qui non si scappa. E il lavoro del ricercatore e dello scienziato quanto può essere considerato, nelle sue dinamiche operative, divertente?

La cittadella dimostra che il suo mondo, ellittico, aperto alla sperimentazione è suggestivo e divertente e quanto di più simile ad una esperienza ludico-scientifica che mi sia capitato di provare ultimamente. Bisognerebbe metterlo alla prova con contenuti scientifici. Oppure giocare a Portal (sempre prodotto Valve) e scoprire che il gioco scientifico esiste già …

Un bell’applauso per Totino!


Ecco a voi le inspiegabili avventure mai terminate di Totino, scarmigliato sottomarino che si trova adagiato sul fondo delle putride fognature alla conquista del mare aperto.

Prototipo di un videogame mai terminato e forse mai veramente iniziato, è la testimonianza di alcune notti poco assonnate che trascorsi nell’anno 2006 alla ricerca della mia vera identità e alla scoperta dei segreti del game design.

Perché oggi ho deciso di parlarne alle tre magnifiche persone che una tantum visitano questo blog? È presto detto: ogni volta che mi imbattevo nella sua scalcagnata cartelletta venivo assalito da sensi di colpa per aver sedotto, o meglio – creato – e abbandonato questa indifesa creaturina degli abissi col nasone rosso e l’occhietto un po’ smarrito. Oggi invece erano i miei di occhietti ad essere un po’ umidi e così ho deciso di regalare il red carpet al “diversamente implementato” Totino per ringraziarlo delle piacevolissime ore passate in sua compagnia tra coloriture pixel per pixel, esperimenti nell’affascinante mondo dell’animazione e ragionamenti sulle logiche della programmazione ad oggetti.

Ma queste sono cose che lui non conosce, perché sono successe prima che nascesse. Per questo ve ne parlo adesso, mentre lui è là fuori a godersi finalmente la libertà.

I videogiochi sono arte?

Provo a dare anch’io qualche impressione a caldo su questo tema abbastanza dibattuto in rete e non.
Il mio parere forse un po’ da estremista è che per essere considerato opera d’arte un prodotto di ingegno dell’uomo non debba rientrare in categorie precostituite (come estetica visiva, sonora o di gameplay …) in quanto la vera opera d’arte riscrive continuamente da sé le proprie regole inventando nuovi modi di comunicare al grande pubblico un concetto, un’emozione ma soprattutto che crei uno strappo nel velo tra il nostro mondo classificato, oggettivizzato e il mistero, la verità.

Attenzione: non sto parlando di concetti legati ad una qualche visione mistica o religiosa, ma di rivelazioni di quella che potrebbe essere la vera natura del mondo o l’ipotetica risposta al senso della vita. Sono ormai decenni che l’arte non è più legata al virtuosismo tecnico o alla capacità personale dell’artista nel realizzare gli asset della propria opera: i più grandi artisti contemporanei non realizzano (o solo in parte, in alcuni casi) da sé le proprie opere (a meno che non siano opere di pittura classica o di scultura tradizionale), ma le fanno realizzare ad abili artigiani o altri artisti.

Quello che conta è una tecnica al servizio di un’idea alla quale mai nessuno prima era arrivato riuscendo ad esprimerla con una forza travolgente e universale (pensare ancora che la vera opera d’arte debba essere svincolata dal mondo commerciale e dal riscontro massificato è una banalità che va combattuta).

Con questo non voglio dire che i videogiochi non possano contare opere d’arte, anzi, credo solo che ci sia da andarci con i piedi di piombo a definire alcune opere come artistiche tout-court perché presentano un ottimo design, un ottimo gameplay e un ottimo sound design. Io credo che debba esserci anche qualcosa di più, debbano rivelare un qualcosa di noi, dell’essere umano, della vita. E questo i videogiochi lo possono fare perché sono un medium molto versatile e potente. Nella mia lunga carriera da videogiocatore ho giocato molti giochi eccellenti dal punto di vista tecnico-artistico ma alla fine se mi chiedevo “mi ha insegnato qualcosa questo gioco sulla vita? Mi ha portato a riflettere su qualche interrogativo sostanziale che non fosse qualche problema o rivelazione interna esclusivamente al proprio testo?” la mia risposta è stata quasi sempre no. Per ora non mi va di sbilanciarmi e definirei alcune opere multimediali interattive opere d’arte popolare. Questo sì, tranquillamente. Per altre definizioni ho tutta la vita davanti per rifletterci e discuterne.