La struttura di un controller quanto influenza l’esperienza di gioco?

Sono importanti i movimenti che faccio su un controller mentre gioco ad un videogame?

Oppure l’esperienza che le mie mani fanno sul dispositivo è completamente disgiunta e poco significativa rispetto a ciò che attuo sullo schermo?

È questo quello che mi chiedevo qualche giorno fa.

E’ un dato di fatto che i movimenti che mi sono consentiti utilizzando un controller sono essenzialmente vincolati dalla forma e dalla funzione del dispositivo stesso: ad esempio i grilletti frontali mi costringono a flettere gli indici e i medi verso l’interno, i joystick analogici mi permettono di ruotare i pollici in senso orario o antiorario etc.

E’ esclusa insomma quasi ogni variante sul tema: i movimenti possibili sono codificati e limitati e, ad oggi, non può che essere così.

Tanto è vero che questo tipo di interazione ripetuta ossessivamente e meccanicamente può portare a vere e proprie patologie da pad, come ha documentato egregiamente il gruppo di artisti  IOCOSE insieme con Matteo Bittanti nel progetto Game Arthritis.

Game Arthritis (c) Matteo Bittanti e IOCOSE

La cosa un po’ grottesca è che con questo esiguo numero di tasti e con questi pochi movimenti noi possiamo fare tutto all’interno di un gioco: guidare un’auto, far correre un personaggio, sparare, osservare uno spazio tridimensionale, navigare all’interno di menu e quant’altro.

Immaginatelo nella realtà. Pensate quanta intensità esperienziale andrebbe perduta nell’interagire con il nostro mondo attraverso pochi e ripetuti gesti codificati.

Ma è davvero così poco significativo il mio gesto fisico nella realtà da non meritare alcuna attenzione? Il fatto che io, premendo un solo tasto, possa compiere azioni così differenti tra loro, come accelerare una macchina, aprire una porta, chiacchierare con un personaggio appare quanto meno primitivo.

In realtà, il tipo di interattività totalmente basata sulla gestualità libera che richiedono i dispositivi come il Kinect in parte sta rispondendo a questa domanda: l’interattività che mima la realtà in rapporto quasi 1:1, a ben vedere, non aggiunge poi tanto all’esperienza di gioco.

Guidare un’auto simulando il gesto delle mani che afferrano un volante nel vuoto aggiunge poco o nulla all’esperienza vissuta su schermo. La sensazione di stare realmente guidando un’auto non migliora rispetto a ruotare di qualche grado un pollice piazzato su uno stick analogico.

E’ come se il linguaggio usato (il corpo, i gesti, la mano, le dita) non influenzasse minimamente il messaggio (l’azione che devo svolgere all’interno del mondo virtuale).

Dunque, non stiamo a spaccarci la testa nel trovare modi alternativi di interagire fisicamente con un videogame. Quello però che possiamo fare è cercare di far compiere al giocatore, all’interno di un gioco, azioni più significative e intense rispetto a quelle che siamo chiamati a compiere per gran parte del tempo oggi. Ossia, sparare, correre, sparare, correre e ancora sparare.

Va dunque bene ruotare uno stick o premere un pulsante, ma invece di usarli per compiere gesti tutto sommato banali, sarebbe ora di iniziare ad impiegarli per azioni emotivamente più interessanti.

La buena educación dei videogiochi

Skylanders: Spyro's Adventure (c) ActivisionGabry non è mai stato un gran utilizzatore di giocattoli tipo pupazzetti. E’ sempre stato invece un grandissimo appassionato di videogiochi. Ha iniziato a giocare con il Nintendo Ds all’età di 3 anni, e accidenti, era pure bravo. I pupazzetti tipo Lego, Playmobil, soldatini etc. invece non l’hanno mai tanto interessato. Questa cosa un po’ in famiglia ci preoccupava, perché il gioco di ruolo è un elemento fondamentale nella crescita di un bambino. Invece che ad un bambino piacciano tanto i videogiochi sta sempre un po’ sulla scatole a tutti (non sono educativi, rimbambiscono, spingono alla asocialità etc. etc. etc.).

Tanto è vero che, parlo ormai di un anno e mezzo fa, alla scuola materna che frequenta Gabry le maestre notando per un certo periodo una forma di straniamento dal mondo reale del bambino, ci consigliarono di ridurre drasticamente l’utilizzo dei videogiochi (ma questa è un’altra storia).

Ultimamente però, questa tendenza ha avuto una svolta epocale.

E questa svolta è avvenuta proprio per merito di un videogioco. Ma come è possibile che un videogioco porti un bambino verso il giocattolo tradizionale?

Con un videogioco che è mezzo giocattolo e mezzo videogioco. Il portale di Skylanders: Spyro's Adventure (c) Activision Il gioco in questione si chiama Skylanders e funziona così: il bambino per attivare un personaggio all’interno del gioco (del genere rpg, hack & slash) deve posizionare il corrispondente pupazzino sopra ad un “portale” (un accessorio che si collega alla console); nel giro di qualche istante il gioco si “accorge” di questa presenza fisica e lo fa apparire all’interno del gioco. I pupazzini in vendita sono ovviamente svariati in genere, regno di appartenenza e poteri per cui scatta naturale il desiderio di possederne il più possibile (portafogli permettendo).

Orbene, questo innovativo videogame (le statuine e il videogame sono realizzati molto bene in verità) ha trasformato Gabry in un attivissimo giocatore di pupazzetti e creatore di avventure, dall’alba al tramonto. Nel vero senso della parola, poiché ad ogni colazione la tavola viene invasa da draghetti, troll e spiritelli così come ogni nanna viene accompagnata dalla disposizione dei simpatici amichetti sul comodino a fianco al letto. E i videogame?

Da un anno e mezzo si gioca solamente una volta alla settimana per un’ora e nemmeno gli skylanders hanno infranto questa regola. Nel resto del tempo si gioca con i giocattoli tradizionali.

Iconografie emergenti e videogiochi

Burne HogarthEsistono innumerevoli esempi di opere grafiche popolari contemporanee che esplorando uno specifico argomento ne hanno sancito i canoni estetici fondanti del linguaggio di genere. Mi vengono alla mentre tre esempi: i libri illustrati Fate di Brian Froud e Alan Lee, Gnomi di Rien Poortvliet e Will Huygen e Il disegno della figura in movimento del fumettista e illustratore Burne Hogarth.

Il manuale di anatomia artistica di Burne Hogarth, classe 1911 e disegnatore di Tarzan per la United Syndacate, per chi abbia seguito un percorso di studi artistici rappresenta senza ombra di dubbio uno dei testi più importanti e utili nel comprendere tecniche e teorie alla base del disegno e delle dinamiche del corpo umano in movimento.

Gnomi e Fate sono due monografie splendidamente illustrate (in Italia edite da Rizzoli) di taglio quasi enciclopedico e scientifico che esplorano in modo onnicomprensivo la leggenda, il mito, la tradizione popolare sugli gnomi e le fate.

Tutti e tre i libri, ormai pubblicati da almeno un trentennio, hanno stabilito uno standard estetico nella rappresentazione degli specifici soggetti: Fate e Gnomi hanno fondato il vocabolario estetico e formale della tradizione popolare fantastica del nord europa al punto che oggi risulta praticamente impossibile approcciarsi al genere senza rendere omaggio o citare – consapevolmente o meno – qualche illustrazione di Poortvliet o di Froud. Serie animate, fumetti e arte popolare in genere sono contaminati da queste opere più di quanto si possa immaginare.

Fate di Froud

Lo stesso dicasi per i corpi in movimento di Hogarth, non si contano le citazioni dei suoi corpi plasticamente flessi nello spazio in fumetti, illustrazioni e altri linguaggi che ancora una volta hanno nel loro DNA tracce di queste seminali opere d’arte.

La ricetta misteriosa che permette sovente a talune opere di emergere e di diventare un modello di riferimento all’interno della cultura popolare non credo sia nota, anche se potrei azzardare che potrebbe trattarsi di una mescolanza di un talento straordinario applicato all’indagine meticolosa e approfondita in uno specifico ambito di rappresentazione.

Leonardo da Vinci Studi sull'acqua

Gli storici oggi ritengono che perfino la assoluta genialità di Leonardo da Vinci ritenuta per secoli straordinaria perché applicata in ugual misura a tutti gli ambiti del sapere umano (arte, architettura, ingegneria, matematica, fisica, antropologia, medicina), contestualizzata all’interno di un quadro storico, sociale ed artistico particolarmente creativo nella storia dell’uomo – il Rinascimento italiano – sia alla fine soprattutto ascrivibile ad una eccezionale capacità artistica applicata ad un metodo quasi scientifico nell’osservazione della natura e nella rappresentazione del reale.

Nel mondo dei videogiochi sta accadendo la medesima cosa? In parte sì, ma credo in maniera minore rispetto ad altri linguaggi sostanzialmente per due motivi: il primo, per la relativa immaturità del medium, il secondo, per la sua natura poco accessibile.

Che il linguaggio del videogioco sia ancora immaturo è dimostrato dal fatto che ancora troppi titoli si limitano a mimare e citare l’estetica di opere che li hanno preceduti in altri ambiti, come il cinema e fumetto. Sebbene le potenzialità espressive e tecnologiche del videogioco si attestino oggi su altissimi livelli sono ancora troppo pochi gli esempi di opere che davvero sono in grado di lasciare un segno nella cultura popolare al di fuori dell’ambito da cui provengono.

Il secondo motivo credo che sia più sottile e risieda nel fatto che il videogioco sia di fatto un medium meno accessibile rispetto ad altri e quindi più difficilmente trasmissibile. Un libro, un film, un fumetto sono opere molto accessibili, hanno generalmente barriere di ingresso pressoché inesistenti: è sufficiente acquistarli o noleggiarli e fruirne. Non richiedono particolari tecnologie e in genere sono di durata piuttosto limitata.
Chiunque nel giro di qualche ora può, senza particolari abilità, comprendere e godere appieno di un libro, un fumetto, un film. Ne consegue che questi media e con essi il contenuto che veicolano siano molto più diffondibili e quindi più facilmente acquisibili dalla società a tutti i livelli.

Deus Ex Human Revolution

Per i videogiochi il discorso è diverso: si tratta di un medium “chiuso” il cui contenuto è “nascosto” all’interno di un percorso a scatole cinesi. All’utente sono richieste abilità, precisione, manualità, pazienza, intelligenza per esplorarne il contenuto.
I videogame hanno forti barriere di ingresso poiché necessitano di hardware o configurazioni specifiche che vincolano l’opera spesso ad una determinata marca o ad un servizio (ad es. un abbonamento ad un network). Penso ad esempio ai titoli in esclusiva per alcune console: a meno che io non abbia tutte le console in commercio, alcuni prodotti semplicemente non potrò giocarli.
I videogiochi sono spesso prodotti molto complessi e con un tempo di fruizione molto lungo (credo che il numero di titoli abbandonati prima del termine sia statisticamente superiore rispetto a quelli portati a compimento). La rete, da parte sua, non favorisce significativamente la diffusione delle immagini dei mondi virtuali: le immagini di gioco che si trovano generalmente in rete sono infatti, per la maggior parte, set di immagini ufficiali pubblicate dai publisher in fase di lancio e promozione di un titolo, decisamente poco rappresentative di un gioco nel suo complesso.

Blade Runner

E così il designer, il fumettista, lo scenografo, lo scrittore, il pubblicitario, il regista e…il tatuatore – insomma gli artefici del nostro immaginario popolare – alla ricerca di spunti e di visioni dalle quali trarre ispirazione hanno più facilmente accesso a fumetti, illustrazioni, riviste, dvd, serie tv piuttosto che ai videogiochi, guardiani della soglia di mondi straordinari che soltanto gli eroici giocatori possono attraversare e al ritorno raccontare al mondo là fuori.