Duke Nukem Forever: l’insolita zuppa

Duke Nukem Forever è un’opera di pop art. La sua estetica trash, citazionista, anarchica, demenziale lo rende, non un capolavoro di gioco, ma un prodotto esemplare di arte pop a tratti surreale e con elementi di dadaismo. Duke Nukem Forever come uno sgangheratissimo Katamari Damacy o un post moderno Leviatano attira a sé, rimpastandolo, il nostro mondo occidentale nella sua accezione più degenere, consumistica e globalizzata rielaborandolo e restituendocelo in un parossismo escatologico stampato a retino su carta di pessima qualità.

Il mondo in cui vive e recita Duke Nukem, popolato di paparazzi, guardoni, puttane, registi falliti e alieni sfigati, si nutre degli stessi simboli consumistici con i quali è forgiato e di cui noi siamo parte. Il duca gioca ad un videogame di cui lui stesso ne è il protagonista, guarda la tv, gioca a fare il voyeur con la video sorveglianza in un bordello, maneggia le proprie feci, inneggia alle proprie fan e fa sesso orale in un cesso.

L’immagine del duca reiteratamente sdoppiata nel proprio ologramma, serializzata nei poster alle pareti, replicata all’infinito sui barattoli di chili e hamburger e su un intero supermercato di prodotti, plastificata negli action figure regalo di un fast food, scolpita nel bronzo di statue autocelebrative, dipinta su vasellame di epoca simil cretese, ci racconta di una società consumistica così virtuale da risultare fin troppo reale.

Duke Nukem Forever è una Campbell Soup di Warholiana memoria che condensa atmosfere e situazioni di un’intera cultura visiva contemporanea – con una predilezione per le atmosfere anni ’80-’90 del secolo passato – che raccoglie generi come l’hard boiled, lo spaghetti western, l’horror B movie, l’action movie, la sci-fi e chi più ne ha più ne metta. Come un Bruce Campbell redivivo e diretto da un Sam Raimi d’annata, il Duca arranca e gigioneggia tra un’orda di alieni e l’altra giocando con le proporzioni del proprio corpo e quello dei suoi avversari in un’iperbole comica che pochi altri giochi di oggi possono vantare.

Le scene cult alle quali si assiste o nelle quali si interagisce si sprecano (soprattutto nella prima parte del gioco): l’intera sessione platform all’interno della cucina del fast food dove ogni suppellettile ed elettrodomestico (è necessario entrare anche in una lavapiatti!) diventa un gadget del quale servirsi per raggiungere l’uscita (memorabile l’utilizzo del tostapane per spiccare il salto), la sbirciata dentro al cannocchiale con vista panoramica e totalmente surreale su avvenenti baywatcher in topless dominatrici di squali, il deserto che accoglie la Città Fantasma in cui sorprendere – non visti – gli Sbirroporci, finalmente ritratti nel loro ecosistema originario, impegnati garruli ad esercitare le loro abluzioni nel fango o ancora le sessioni di guida a bordo di una automobilina Rc all’interno di un Casinò abbandonato al proprio degrado.

DNF è etico, perché se è vero che etica ed estetica vanno a braccetto, Gearbox Software non si nasconde dietro ad un dito dichiarando da sempre, con questo dimostrando molta onestà intellettuale, di aver dovuto completare un lavoro iniziato da altri sviluppatori anni prima utilizzando gran parte degli asset preesistenti. E questo si vede, in ogni texture, in ogni poligono: ma questo viene raccontato fin dall’apertura del gioco con un’ellittica quanto simbolica animazione che vede rappresentate le software house che hanno partecipato allo sviluppo del prodotto sui lati di due dadi da gioco che rotolano su un panno verde (è frutto del caso se Gearbox Software è stata la fortunata assegnataria del franchise all’ultima partita? Oppure è stato un azzardo svilupparlo?).
Gearbox con un’operazione quasi dadaista, ha saputo prendere elementi ready-made già esistenti e ricontestualizzarli in un prodotto di grande dignità.
Il risultato è un videogioco girato in studio, in digitale, con attrezzatura amatoriale e scenografie in cartapesta noleggiate sottocosto. La post produzione low budget annovera effetti speciali da B movie con sequenze girate in stile reality-tv testimoni ancora una volta dell’impronta pop del titolo. Ma questo, per chi scrive, non rappresenta una caduta di stile quanto, all’opposto, una dichiarazione di estetica.

Un capitolo a parte merita il linguaggio verbale del nostro nerboruto e sarcastico alter ego:
tralasciando i divertenti ma tutto sommato prevedibili giochi di parole che il duca declama sottolineando i suoi successi militari, quello che affascina è il metalinguaggio messo in atto in alcune situazioni segno di un’indiscutibile lavoro di scrittura a tratti molto brillante.
Quando ad esempio Duke intuendo il legame di causa-effetto tra l’abbondanza di munizioni e l’approssimarsi di uno scontro a fuoco particolarmente violento – “Hay, tante munizioni, tanta carneficina”, dimostra la propria consapevolezza di trovarsi all’interno di un videogioco e di conoscerne perfino le derive più retoriche frutto di un pigro quanto consolidato modus operandi dei game designer degli ultimi 20 anni.
Oppure l’HoloDuke, specchietto per allodole olografico, che mette in scena una parodia “virtuale” nel virtuale del duca con espressioni verbali che giocano – se possibile- al ribasso rispetto al già primitivo vocabolario del “vero” Duke.
O ancora quando, dopo aver raccolto dall’interno di un wc delle…feci, si trova ad esclamare “maneggiare degli escrementi non farà aumentare il mio Ego” giocando sul doppio significato di “danneggiare il proprio amor proprio” come istanza di essere umano e nello stesso tempo a comunicare in maniera extradiegetica al giocatore l’inopportunità di tale azione che danneggerebbe il valore “Ego”, ossia il parametro indicante i punti vita dell’avatar Duke.
Ancora una volta l’avatar è consapevole della propria natura virtuale di artefatto all’interno di un prodotto elettronico e questa intuizione, parecchio originale, riesce a restituire al giocatore un personaggio più vivo che mai.

Che il gioco operi su più livelli tra il “dentro” e il “fuori” è palese anche dai dettagli apparentemente più insignificanti, come ad esempio quando ci si rende conto che un calendario a parete (ogni pagina poteva non essere illustrata da ragazze succinte?) riporta i mesi soltanto a partire da luglio. Cosa significa questo? Nel contesto interno del gioco apparentemente nulla, ma se pensiamo alla data di uscita del gioco (nel mondo reale) ossia giugno, questo puzzle metafisico ci risulterà immediatamente comprensibile: i mesi antecedenti non possono esistere perché prima della data di uscita del gioco il mondo di Duke non esisteva!
In un mercato in metastasi di giochi che si prendono troppo sul serio e che sacrificano costantemente sull’altare della propria estremistica coerenza interna creatività, originalità e divertimento, Duke Nukem Forever ha il merito e il coraggio di non soggiacere alle proprie regole e di fare della sua coerenza la non coerenza. DNF stravolge, a ogni istante, le regole del suo mondo trascinando il giocatore in un luna park lisergico dove ogni trovata triviale, innestata a forza nel suo (esile) tessuto narrativo, rischia di mandare a monte (consapevolmente) tutto quello che è stato costruito fino a quel momento, facendocelo risultare al palato sorprendentemente gustoso e genuinamente divertente.
DNF pur non essendo paragonabile alle tanto colossali quanto asettiche produzioni hollywoodiane di genere degli ultimi anni, è un gioco d’autore senza dubbio alcuno, rispettoso della tradizione storica del brand cui appartiene e animato da un’energia aurorale e nuovissima nello stesso tempo che i giochi a venire dovrebbero fare propria per non rischiare di nascere già morti.
Giocato su XBox 360 a livello “Roccheggiando”.

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